Parov Stelar Band: oltre il concerto

Era nei miei piani, ma ci avevo già messo una pietra sopra. Troppo lontano per andarci in auto, quasi tre ore di guida non fanno per me. Troppo incasinato per arrivarci con i mezzi: avrei dovuto prendere tre treni più un autobus e aggiungervi parecchi chilometri a piedi.
No, impensabile. E poi i biglietti dovevo ancora acquistarli, forse erano già esauriti, d’altronde le date per l’Italia erano soltanto due, ai due estremi del Nord peninsulare.
No, non era destino. Di concerti della Parov Stelar Band ne ho visti a bizzeffe sul web, dal minuto di Instagram all’ora e mezza di uno show intero su Youtube. Conosco la scaletta, l’ordine dei pezzi, gli effetti di luce, l’energica “direzione d’orchestra” del guru Parov da sopra la consolle, le movenze sinuose e il look post-revival della cantante Cleo Panther, gli assoli della sezione fiati e della chitarra, il fascinoso gioco di luci e grafica.
Che senso ha andarli a vedere dal vivo? Un senso c’è: respirare quella energia, farsi trascinare in quel vortice di ballo spensierato, quasi selvaggio. Vedere di persona quei sei musicisti e quel dj, sconosciuti ai più per la maggior parte della loro produzione, fatta eccezione per quel brano divenuto colonna sonora dello spot della più nota compagnia telefonica italiana, sì, quello del ballerino, che qualcuno scambia per l’autore del pezzo. Non è proprio così…
Chiariamo: il perno di tutto è Parov Stelar, quarantaduenne produttore e disc-jockey di Linz, Alta Austria, eclettico nei gusti musicali, troppo strani per essere compresi ed apprezzati in patria (almeno agli inizi, ora è una superstar), dodici album all’attivo a cui si aggiungono EP, singoli, compilation e un numero imprecisato di remix, ogni tanto ne salta fuori uno. Lui, che nei live sta alla consolle a dare il groove da una coppia di Mac, e sembra muovere i fili invisibili dello show, con quella sua energia infuocata.
Quella energia che ti arriva a pelle, che senti persino da un inerte schermo di tablet o pc, la volevo vivere davanti al palco.

Per una serie fortuita e fortunata di coincidenze, mi trovo seduta in una macchina diretta al confine fra Italia ed Austria: Tarvisio, No Borders Music Festival, sto arrivando!
Dopo circa tre ore di viaggio sono lì, a passeggiare nel grazioso paese friulano tra i monti dove confluiscono lingue e culture diverse (in questo caso italiano, austriaco e sloveno), come per tutti i luoghi di confine. Insomma, uno come Stelar lì si sarebbe sentito un po’ a casa!
Un paio di tappe in un bar, mi fermo ad ascoltare il dj set di Nicola Conte che mixava (o meglio, ci provava!) un’ottima selezione musicale di club house, funky, soul, lounge, nu-jazz, deep house fuori dal Tizio e Caio Wine Music Cafè.
Orario annunciato di inizio show: 21.15… quindi 21.30. Prendo il biglietto al botteghino, l’addetto mi si rivolge con un “Bitte?” e poi sentendo che rispondo in italiano si schermisce per la propria “deformazione professionale”. Nessun problema, biglietto alla mano, un veloce controllo della sicurezza, la mia compatta ben inguattata nelle profondità della borsa passa senza colpo ferire come pure la borsa mare in stile pop-art che porto con me per metterci il cartellone dedicato alla band e per lo scopo benefico per cui l’ho acquistata.

Sul cartellone color indaco avevo vergato tre titoli di brani stelariani a formare una frase di senso compiuto, curiosa e un po’ ambigua. In italiano suona più o meno così: “Parov Stelar colpiscimi come un tamburo con tutto ciò che è nel tuo cuore per tutta la notte”.
Sono davanti al palco, in terza fila circa sul lato sinistro, circondata da una folla di ogni età, tutti in piedi, con le braccia al cielo e il coro di rito a chiamare la band sul palco.
Buio, fumo, suspence: sulle note del sublunare intro elettronico tratto da “The Demon Diaries” si delineano i primi contorni geometrici e le silhouette dei musicisti. Escono uno alla volta dalle quinte, salutano, il chitarrista imbraccia lo strumento, i fiati tengono in mano i propri ottoni. Stelar compare da dietro la consolle, camicia scura, maniche rimboccate al gomito e jeans, accenna un saluto e si mette all’opera. Ultima a calcare la scena è Cleo Panther, la cantante solista, che esce in trench nero stile “polizia segreta” e cappello sulle ventitrè intonando “Hit me like a drum”, uno dei pezzi più potenti e trascinanti del repertorio stelariano, per poi spogliarsi della giacca ed esibire un top ornato da perle, borchie e strass, foulard al collo, mini-shorts, calze a rete e megatacchi. Io tiro fuori il cartellone dove c’è pure il titolo del primo brano e lo alzo al cielo verso di loro. Il palco si illumina, l’aria si elettrizza e si riempie di carica positiva, i giochi di luce, colori, effetti visivi e grafici vanno a braccetto con la musica. Dall’alto della consolle Parov Stelar mi nota, mi punta col dito e sorride. Ho già vinto tutto: l’agitazione, i chilometri, le prime impressioni. In qualche modo la mia idea balzana di attempata groupie è arrivata a lui e alla band.
Ma non è finita: mentre sto a braccia all’aria sento una mano che mi prende l’avambraccio. Mi giro ed è il manager di Parov, Günter Unger. Sono in contatto con lui sui social, lo avevo avvisato che stavo per arrivare con cartellone al seguito. Stupita che mi si sia avvicinato, ci salutiamo parlandoci in inglese, mi ringrazia per esserci e io ringrazio lui per essersi presentato. Mi fa capire, nella caciara imperante, di fermarmi dopo lo show, che nel frattempo prosegue tra brani storici e qualche nuova proposta dal nuovo album di Stelar, “The Burning Spider”.
I musicisti si spendono senza lesinarsi, tirando fuori dai loro strumenti magia, potenza e bellezza, senza dimenticare la giusta coreografia di piegamenti all’indietro e in avanti. C’è spazio anche per una breve presentazione della band e dell’ “eroe della chitarra”, Michael Wittner, che esegue in acustico l’intro di “Clint Eastwood”, hit dei Gorillaz datata 2001, a cui si aggiunge il trombone di Jakob Mayr e su cui Parov innesta “Mama Talking”.
Spettacolo a parte lo dà proprio lui, il Gran Maestro di Cerimonie Parov Stelar. Davanti a sé ha due Mac Book e un mixer, più altri aggeggi elettronici.
Uniche concessioni ai capricci delle star, la sigaretta elettronica e qualche lattina di birra.
Uno potrebbe pensare che si metta lì a fare il dj “sciallo”, come dicono i romani, o “take it easy”, come dico io: una pigiatina sulla tastiera, ogni tanto un cursore tirato su e uno giù, un po’ di movimenti ad “andamento lento” e pace… invece no, è un coarcevo di grinta. Osserva e conduce i due Mac a mo’ di domatore di leoni al circo, posa le dita sulle tastiere con attenzione, dosando forza e dolcezza, si muove a ritmo sincopato, balla e incita la folla puntando in alto il dito e urlando al cielo. Quella musica, la sua musica, sembra aiutarla a generarsi, a venire alla luce tirandola fuori con perizia e la giusta dose di impeto dagli hard disk davanti a lui. Ad ogni concerto Parov Stelar fa l’amore orgasmico con i suoi Mac.
Tutta scena? Tutto costruito a tavolino? Me lo sono chiesta, certo. Me lo chiedo. Così l’ho visto estrarre il suono, infervorarsi, eccitarsi tantissime volte sul web e in streaming, anche quando non era conosciuto, quando suonava nei locali e portava con sé solo un paio di musicisti (sax e tromba). Anche allora era così, a volte meno plateale, ma la sua compartecipazione empatica non veniva mai meno. Se finge, finge bene. In tutta onestà, credo non finga. Mi ricorda più quegli sciamani che entrano in uno stato di estasi durante i loro riti magici. Il rito qui è la musica, e lui la crea, la inspira, la possiede e ci si perde dentro, sprofonda nella sua trance con tutto se stesso.
Cleo Panther nella sua tenuta da concerto affascina grazie alle sue movenze ancheggianti: i fianchi ondeggiano sensuali a tempo con i brani e la voce graffiante e timbrica marchia a fuoco il cantato, eccellendo nei pezzi arrangiati apposta per i live, uno fra tutti l’ormai stranoto “All Night”.

Foto di Argya Lydon
Il trio di fiati è eccezionale, aggiunge quel sapore swing arioso e spensierato in grado di alleggerire anche la techno più oscura e minimalista che si irradia dall’alto della consolle. Sulla stessa linea d’aria stanno Parov ai Mac e Hans-Jürgen Bart, suo storico batterista dal look rock, coppola in testa e occhiali da sole, a scandire il ritmo acustico con piatti e grancassa in un costante equilibrio con il ritmo elettronico della programmazione. Non mi sfugge il gioco di sguardi, incitamenti e mani tese a “stoppare” che l’uomo dei Mac lancia all’uomo del rullante.
“È un mix curioso la musica di Parov Stelar”, mi trovo a pensare: curata, studiata nel dettaglio, di alta qualità, levigata ma dai suoni che sembra quasi impensabile possano congiungersi, abbracciarsi, avvitarsi assieme, tanto lontani paiono essere gli uni dagli altri quei riff nervosi di sinth e sequencer, quel groove a martello rispetto a quegli ottoni leggeri (non sempre, sanno essere anche grevi e cupi quanto basta) o quella chitarra ammiccante. D’altronde lo sa, lui, Parov Stelar, di sfidare apertamente le regole della teoria musicale. Lui che ammette di non saper suonare nessuno strumento tradizionale, al massimo soffia dentro al didgeridoo, lui che crea brani seguendo il proprio istinto e il proprio orecchio. E gli riesce pure bene.
Il concerto prosegue, arricchito dai precisi, splendidi effetti di luce e visual del direttore della fotografia Gerd Schneider: il fondo del palco, la consolle e le due pedane rialzate laterali sono rivestite di pannelli a led sui quali vengono proiettate figure geometriche colorate, immagini, effetti visivi, scene di video, giochi di luce in sincrono con le costruzioni melodiche. Negli spettacoli della Parov Stelar Band, i visual sono protagonisti al pari dell’esperienza sonora e Parov stesso, artista figurativo prima ancora che produttore musicale, ne conosce bene portata ed impatto.

Foto di Argya Lydon
Alle 22.30 la band finge di salutare e si dirige in penombra sul fondo: è il momento di chiedere i bis. Non tardano a rientrare per offrire gli ultimi tre brani del concerto, chiudendo con la hit colonna sonora del noto spot telefonico italiano. Si raccolgono e si abbracciano davanti al palco, inchinandosi al pubblico, sudati e sorridenti, salutano con le mani e applaudono a noi.
È l’ultimo round per il mio cartellone, lo alzo al cielo per salutarli, Parov lo vede, mi indica col dito e sorride, ed è la terza volta. Già, non è uno di quegli artisti col sorrisetto di circostanza stampato in faccia, ma quando sorride, si illumina, ti illumina e ti spacca il cuore.
La band scende la scaletta metallica sulla sinistra e scompare dietro le quinte.
Le luci sul palco si spengono, fluttuano molli nell’aria tiepida le volute opalescenti di fumo scenico, l’energia vibra ancora. Gli spettatori iniziano a diradarsi, qualcuno rimane addossato alle transenne ad attendere, forse, gli artisti giù in platea.
Butto l’occhio sulla mia sinistra, Günter sta scostando le transenne e mi fa cenno di avvicinarmi. Raccolgo borse e cartellone, passo attraverso l’apertura e lo guardo stupita. Mi chiede di attendere un attimo, la band sarebbe venuta a salutare. Assieme a me entra una famiglia austriaca, probabilmente loro amici. Non potevo crederci, ero lì, per caso, e stavo per incontrare Parov e i suoi musicisti. Dopo un veloce confabulare con gli addetti ai lavori, Günter mi indica di seguirlo. No, la band non scende, sarò io ad andare da loro! Mi trovo a zigzagare fra impalcature e personale, poi su per due rampe di vecchie scale in pietra fino a trovarmi in un mezzanino davanti alla porta del “camerino”. Attendo qualche minuto e nel frattempo stringo la mano ai musicisti radunati in piccolo drappello: Sebastian, Jakob, Michael, Marc, Hans-Jürgen, il booking agent Mark. Già così era incredibile!

“Come on, come on!”, sento esclamare da Günter. Varco la soglia della porta, che era aperta e oltre la quale avevo già scorto Cleo Panther, la cantante. Lui, Parov Stelar è sulla destra, nascosto dal muro. Lattina di birra in mano, giacca antivento e asciugamano al collo (era sudato fradicio finito il concerto!), ci guardiamo e… ok, tutto quello che avevo pensato di dirgli puff! Sparisce dalla mia mente, assieme a buona parte del lessico inglese, tanto faticosamente appreso a scuola e università. L’unico gesto di (non)senso compiuto che riesco a fare è poggiare il dorso della mano sulla fronte! Lui scoppia a ridere, capisce il mio imbarazzo, mi abbraccia forte, chissà, forse anche lui un po’ imbarazzato nel giocare il ruolo del “divo”. Mi chiede se mi è piaciuto lo show e vuole vedere il cartello che legge. Gli piace, mi sorride con quel sorriso che apre il cuore a metà e mi abbraccia di nuovo. Il suo è un abbraccio sprizzante di energia, avvolgente, autentico, amichevole, ma anche di quelli che ti fanno sentire la scossa lungo tutto il corpo. Sì, perché il carisma c’e.
Curiosità del tutto femminile che serbavo era vedere se di persona Parov fosse uguale alla figura ritratta nelle numerose foto in circolazione, opera soprattutto di Jan Kohlrusch, suo fotografo anche nei tour passati. Non è raro scoprire che un personaggio famoso risulti ben diverso da come appare nei ritratti, vuoi perché Photoshop impera, vuoi perché hanno un make up perfetto o semplicemente degli ottimi fotografi. Già durante il concerto dall’alto della consolle mi sembrava identico alle foto di lui “ai piatti” e l’impressione è diventata certezza una volta che me lo ritrovo faccia a faccia: riconoscibile al 100%, alto (più di quel che pensavo!), un bel personale, fisico robusto e atletico, ma non da maniaco della palestra, occhi luminosi di un tranquillo color ciano, sguardo e volto fascinoso, barba di qualche giorno, i capelli tagliati un po’ alla moda hipster. Tradotto in articolo, aggettivo e sostantivo suona come “un gran figo”. Pure io finisco nella trance più completa, tanto che persino adesso, a distanza di tempo, non riesco a mettere in fila per bene quello che ci siamo detti. Io gli ho detto davvero poco.
Dopo di lui mi dirigo in fondo alla stanza e incontro Cleo Panther, la cantante sexy della band. È molto graziosa, portamento da ballerina, minuta e non altissima, sebbene dal palco appaia statuaria. Ci parliamo in inglese, la abbraccio, mi racconta che anche lei è di fretta, sta facendo le valigie per rientrare a Londra, dove vive. Apprezza tanto il fatto che sia andata a vederli malgrado i chilometri e la distanza e aggiunge che le piacerebbe visitare Venezia, prima che affondi! Le assicuro che non accadrà! Di una cosa per fortuna mi ricordo, chiedere i loro autografi. Ovviamente non ho né penna né carta, visto che l’incontro finale non era stato messo in preventivo. Viene in soccorso Günter, che fa comparire dal nulla un pennarello indelebile nero, ed io mi arrangio col retro del biglietto sul quale firma tutta la band.

Mentre sono lì, sospesa fra incredulità e stupore, Günter mi pone qualche domanda, è curioso di sapere come si pronuncia il mio nome (d’arte), mi invita a restare anche finiti i saluti e infine mi cinge il collo con il pass “all areas” per il festival. Si occupa lui anche delle foto di rito, prima con Parov e Cleo, dopo con la band. Ricevuta l’investitura, è il momento di andare. Il manager di Parov mi accompagna giù e oltre le transenne, ma prima del “ciao” finale attraversiamo la piazza fino allo stand del merchandising, dove si fa consegnare la t-shirt del tour, taglia S (perfetta!) e me la regala, mi stringe la mano, salutandomi e ringraziandomi per il supporto. Sì, è vero, condivido i post che riguardano Parov e la band sui social, del suo ultimo album “The Burning Spider” ho scritto sul mio blog una recensione che è piaciuta agli organizzatori del No Borders Music Festival di Tarvisio tanto da averne estrapolato delle parti per promuovere in Facebook la data della band. Dopo che ho conosciuto la sua storia artistica – e questo tipo di “scavo” lo intraprendo solo per gli artisti che mi affascinano molto – ne parlo entusiasta alle persone con cui mi trovo a conversare di argomenti musicali. Almeno questo è quello che notano in me: mi brillano gli occhi, dicono. Chissà…
Di certo brillavano quella notte del 30 luglio, anche se io non potevo vederli. Brillavano mentre tornavo allo stand del merch per prendere il manifesto ufficiale del tour con l’effigie di Maya, la figura femminile dipinta da Lilja Bloom (moglie e ispiratrice di Parov Stelar), quello più elegante, da incorniciare ed appendere in camera assieme agli autografi e trovavo persino delle piccole scatole promozionali di fiammiferi, che mai avrei immaginato esistessero davvero. Brillavano mentre giravo a zonzo per la piazza finito il concerto, fiutando ed assorbendo gli sprazzi di energia latenti a mezz’aria. Brillavano mentre dagli scalini della gradinata laterale osservavo il tir bianco sul quale i tecnici stavano caricando l’impianto audio-video della band dentro le proverbiali casse nere.


È tempo di tornare a casa: incrocio per l’ultima volta due dei musicisti, Marc il trombettista e Jakob il trombonista, che si apprestano a riporre gli strumenti nel bagagliaio di un’auto concessa loro dagli sponsor. Ci salutiamo con un “ciao”.
Sì, ho conosciuto la Parov Stelar Band: persone come tutti, senza vezzi e atteggiamenti da star, che come tutti fanno il loro lavoro, privilegiato se vogliamo, lo capiscono ma non ti guardano dall’alto in basso. Anzi, ti fanno sentire un pochino in famiglia.
Si riparte: il viaggio di ritorno si fa più leggero nel vorticare delle emozioni. Domani si torna alla scrivania, al pc, al telefono, all’ufficio, alla vita quotidiana con una t-shirt addosso, delle foto memorabili (che Günter mi ha subito inviato via mail) e un po’ di magia fra le dita e le pieghe dei pensieri.
A volte i sogni si avverano. Se sono inaspettati hanno più sapore, credeteci.
(Parola di realista/pessimista storica).
Parov Stelar Band – formazione The Burning Spider Tour 2016/2017
Parov Stelar – programmazione, sequencer, elettronica, arrangiamenti, sampling, groove activator
Cleo Panther – voce solista
Sebastian Grimus – sax
Jakob Mayr – trombone
Marc Osterer – tromba
Michael Wittner – chitarra e basso
Hans-Jürgen Bart – batteria
Günter Unger – management
Gerd Schneider – light director